Poche settimane fa Tommaso di Carpegna, autorevole medievista dell’Università di Urbino, invitava la platea che ascoltava in silenzio il suo racconto della vita dello storico olandese Johan Huizinga a prestare attenzione al 2024, anno in cui cadranno diversi centenari importanti per la storia e per la cultura europea. Per il nostro paese uno su tutti, l’assassinio di Matteotti, ma anche altri fatti di cento anni fa segneranno profondamente i decenni successivi: dalle pubblicazioni di Marc Bloch e dello stesso Huizinga a quelle del filosofo ungherese Gyorgy Lukàcs, dalla morte di Lenin alla nascita di Paolo Volponi. Per una piccola città di provincia essere capitale della cultura a cento anni di distanza dal 1924 avrebbe dovuto significare, come minimo, provare a essere all’altezza di quei fatti e non invece, come mi pare dalla kermesse del MAXXI, puntare semplicemente ad assecondare i canoni del turismo di massa diventando una protesi dello svago e dell’intrattenimento televisivo trasfigurato in “natura della cultura”. In realtà tutto era chiaro dalle sessanta e passa pagine del “meraviglioso” progetto con cui Pesaro aveva sbaragliato la concorrenza un anno fa con la benedizione del ministro della cultura allora in carica. Se qualcuno si aspettava qualche sussulto che andasse a rimuovere le pigrizie culturali di una città sempre più sonnolenta si stava sbagliando di grosso. Prego signori, accomodatevi in poltrona, accendete lo schermo, sintonizzatevi sul canale preferito e godetevi tranquillamente lo spettacolo. Le emozioni non mancheranno come non mancheranno i buoni propositi con cui cercheremo tutti di essere solidali e sostenibili. Il convitato di pietra sarà proprio la cultura, nonostante lo sforzo di qualche figura volonterosa (e un po’ cortigiana) teso ad abbellire quello che, a prima vista, sembra essere il nulla. Capisco che è faticoso, in particolare per un ragazzo (di campagna) del secolo scorso come me, ma essere un po’ meno provinciali dovrebbe significare alzare un po’ lo sguardo sul mondo e non subire passivamente le fascinazioni di una modernità che ci offre solo consumo, pure di bassa qualità. Dovrebbe significare attenzione al grande lavoro di diverse università americane impegnate nella costruzione di una cultura critica del digitale e una vera curiosità culturale (non solo geopolitica) per il sud del mondo  interrogandosi al contempo sulla compatibilità tra sistema socio-economico e salvaguardia del pianeta e sulle ragioni vere della pace e della guerra. Dovrebbe significare non recintarsi nella monocultura rossiniana e aprirsi ad altri universi musicali, magari coordinando pure le specificità di tante associazioni senza allestire un grande contenitore con dentro tutto e il contrario di tutto per valorizzare la specificità di ognuna dentro un quadro coerente di proposte: dalla storia alla letteratura, dall’impegno civile alla sensibilità ecologica. Dovrebbe significare valorizzare al massimo le istituzioni culturali della città a partire dalla loro identità e dalla loro storia senza tante messinscena e attrazioni ruffiane contestualmente all’esaltazione non estemporanea dell’altissimo livello di una risorsa come quella espressa da una concentrazione di illustratori senza pari che non esiste in nessun’altra città italiana. Non servono effetti speciali, basterebbe “la semplicità che è difficile a farsi”! Ma chi progetta questi caravanserragli ha contezza di cos’è e cosa esprime per davvero questo territorio o ha una ricetta seriale, sempre uguale per tutti i luoghi e per tutte le stagioni, da Bolzano a Capo Passero, da Ventimiglia a S. Maria di Leuca passando per Matera e per Procida? Certo, ci vorrebbe la politica ma anche quella è ormai ridotta a un format televisivo.

Immagine: una scultura di Giorgio Antinori

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