Fare della pigrizia virtù vuol dire fare virtù della necessità. Possiamo osannare al lavoro quanto vogliamo, la realtà del mondo di oggi è, che l’umanità potrebbe sopravvivere benissimo e meglio lavorando di meno. La necessità di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte è venuta meno. Dopo la fame (vinta dalle patate) è suonata l’ora dei gigli di campo. Questa è la grande novità storica dopo la cacciata dal paradiso. C’è un paradiso davanti a noi nel quale costretti da tanti vincoli non vogliamo mettere piede. L’umanità continua a lavorare ed agitarsi spendendo l’energia sua e quella della natura per fare guerre, per andare sulla luna o su Marte, per trasformare la terra in una grande fabbrica anziché in un giardino. Chi ha un minimo di barlume può vedere che la metà di quanto produciamo è dannosa o nel caso migliore inutile. Ciascuno di noi può fare o ha fatto l’esperienza che la quantità di prodotti ci soffoca. E’ l’umanità intera che fa questa esperienza, non solo una nazione, un ceto, una classe. E là dove impera ancora la fame il flagello è dovuto più che alla natura alla stessa attività dei paesi ricchi. L’umanità deve decidersi se vuole lavorare meno e vivere di più. La pigrizia diventa virtù.  

Quel che è accaduto nella lunga notte della nostra preistoria è questo: lo sviluppo del lavoro umano ha dato la sua impronta alla natura umana e perfino alla stessa storia della natura. Se questo è vero, la storia del lavoro e l’analisi del lavoro umano oggi diventano la chiave per comprendere meglio il passato e il futuro del genere umano.

Quali sono i passi che una analisi di questo tipo dovrebbe compiere?

Della storia umana conosciamo abbastanza bene solo quella degli ultimi 5 mila anni. 

Quel che impressiona considerandola è l’accelerazione del suo corso negli ultimi cinquecento anni. Un sviluppo sempre più vertiginoso. Oggi anche quello fisico e mentale dell’essere umano rischia di essere esposto a ritmi “disumani”, difficili da reggere. Ecco l’autoproduzione dell’uomo in crisi. Si apre una forbice tra i suoi tempi e quelli della natura (ma anche quelli cominciano a galoppare, spinti dall’azione umana).  A questo punto diventa difficile parlare della “natura dell’uomo”. Tutto diventa possibile e non sappiamo che cosa accadrà alla nostra specie e alla stessa terra. Uno scenario tanto entusiasmante quanto preoccupante (annunciato da vecchi miti e da nuovi racconti e film di fantascienza).  

Anche se viviamo in un epoca di impotenza politica (l’accusa di Greta del blabla dei vertici non può non riconoscere lo stato di impotenza del potere politico in generale) o meglio, proprio perché siamo politicamente impotenti (per quanto riguarda non le piste ciclabili, ma queste questioni di fondo) l’iniziativa passa agli individui e ai singoli gruppi per la costruzione di una teoria e prassi centrate sulla questione del senso del lavoro, del lavoro che ha senso. Un bricolage rivoluzionario. La pigrizia è un arma fondamentale di questo impegno, come lo è stato lo sciopero nella conquista di migliori condizioni di lavoro. Ma ormai la lotta per le condizioni di lavoro non basta più (lotte necessarie per conquistare che cosa, se non la capacità di pensare al nuovo?). Infatti, nel non saper colmare questa insufficienza con nuovi obiettivi concreti sta la ragione della crisi del movimento operaio. 

Allora che fare? Superare il lavoro comandato dal denaro (che è stato un progresso rispetto alla schiavitù) e il suo nesso lavoro/reddito; fare un ulteriore passo e macellare le vacche sacre della creazione di posti di lavoro e infine del concetto stesso oggi universalmente accettato della produttività del lavoro. Chi decide cosa e come produrre? Ecco le prime domande dalle quali partire e sulle quali insistere.

Viviamo in un immenso cantiere di ripensamenti. 

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