Ci sono oggetti sorprendenti nascosti nelle case abbandonate, oggetti che a trovarli svelano un mondo, oggetti magici, che riescono a far vedere e sentire; capaci di raccontare…

Mario Ferraguti (“La voce delle case abbandonate”, Edicicloeditore, 2016)

 

13 ottobre 2019

Il confine tra Marche ed Umbria non è distante, lascio la provinciale ed imbocco la strada bianca che attraversa il bosco.

La percorro per diversi chilometri. Poche costruzioni isolate. Cumuli ordinati di legna accatastata a fianco della strada. Lascio l’auto dopo l’ultima casa abitata. Le macchie bianche dei bovini nei pascoli più in basso; mi giunge il tintinnare dei loro campanacci.

Parcheggio la mia auto accanto a poche altre, per lo più di raccoglitori di funghi, ma non solo: dentro l’abitacolo di una, sopra un sedile, la rivista “Beccacce che passione”.

La strada termina all’altezza di una casa abbandonata, in parte rudere in parte ristrutturata.

Proseguo su una carrareccia. Un lato è sbarrato dal filo spinato. Oltre a quello arrugginito, spesso inglobato nelle cortecce degli alberi, filo spinato messo di recente: qui gli animali pascolano ancora.

Attraverso un fosso, preannunciato dal suo gorgogliare.

Mi inoltro su un sentiero non segnato – da queste parte nessuno è venuto a segnare i sentieri -, fino ad un casale. Le finestre del piano superiore hanno i vetri rotti: quest’ultimo avamposto della civiltà è in abbandono. Tutt’intorno, dolci rilievi verdeggianti.

Una colonia di lucertole muraiole abita le pareti esterne esposte al sole. Per loro, quei muri assediati dalla vegetazione sono un’isola in mezzo ad un ostile mare verde.

La strada sterrata che termina in questa casa si è lentamente inerbita, ricolonizzata dalla vegetazione.

I pali che delimitavano i pascoli al di là del casale hanno da tempo perso il filo spinato.

Ero già passato di qui alcuni anni fa, allora le porte erano chiuse e mi ero limitato a fotografare nella parete esterna vicino alla stalla l’anello che si usava un tempo per legare i cavalli; oggi la porta della stalla spalancata mi invita ad intrufolarmi dentro quelle mura. La porta d’entrata è solo accostata. Entro. Poca luce filtra dall’uscio semiaperto, per farne arrivare di più, apro gli scuri della piccola finestra posta sopra il lavandino – questa i vetri ce li ha ancora.

Uno scorcio di bosco, uno di pascolo, sullo sfondo il Monte Nerone, sulla cui cima si ergono le antenne.

Questa stanza è passata dall’essere la cucina di una casa abitata a ripostiglio. Oggetti di quando lì si cucinava: il camino, il lavandino, un tavolino, sedie male assortite, una vecchia madia, accanto ad altri: un sacco di cemento sul tavolo, una scala, delle tavole, una sega a mano per tronchi e due rastrelli di legno fatti a mano, uno ha denti grossi e radi, l’altro ce li ha più piccoli e ravvicinati; forse hanno smesso di rastrellare il fieno.

Ma non è su questi oggetti che concentro la mia attenzione, sono attirato da una vecchia stampa appesa alla parete di fronte a quella del camino; ha i bordi rovinati ed è trattenuta al chiodo da un pezzetto di spranga arrugginita.

Non più protetta da un vetro, è impolverata come il resto della stanza, malridotta, ingrigita dagli anni come l’intonaco, si nota appena. Mostra una bambina che ha in mano un mazzolino di fiori ed abbraccia un cane. Scarpe e vestito dell’inizio del secolo scorso.

Oggetto voluttuario di un luogo, di un tempo in cui era difficile avere anche l’essenziale.

Come quel casale, anche la bambina del dipinto è circondata dal verde, ma il suo è quello di un giardino curato.

Immagino un’altra bambina, della stessa età, in quella stanza che odora di legna bruciata, seduta al tavolo; alle sue spalle la madre sta ravvivando il fuoco del camino, lei si gira verso la finestra per guardare fuori – non so che anno sia, so solo che la cima del Monte Nerone è sgombera dalle antenne -, ma quel panorama ha troppe volte reclamato la sua attenzione, si piega in avanti appoggiando i gomiti sul tavolo sporco di briciole di pane e il mento alle mani chiuse a pugno, rivolge lo sguardo a quella stampa che trasuda agiatezza. A quel vestitino rosa, a quella cintura lucida – lei ha solo un abito logoro e sbiadito, lavato chissà quante volte -, a quelle scarpe eleganti – lei ha i piedi scalzi e sporchi -, a quei capelli biondi e ordinati – i suoi sono ancora arruffati dopo la notte -; persino il cane del dipinto è elegante, ben diverso da quelli che vivono nel cortile del casale.

Quella stampa permette alla bambina di sognare un futuro, di fantasticare un altro modo di vivere, in un altro posto.

I sogni di quella bambina si saranno avverati? Forse crescendo non ha più avuto tempo di fantasticare e quei muri – con quella stampa sempre appesa ma ormai invisibile al suo sguardo – l’hanno vista invecchiare.

Senza toccarla, fotografo la stampa, chiudo gli scuri ed esco riaccostando la porta.

 

Didascalie foto:

1 – Pascolo, bosco e, sullo sfondo, il Monte Nerone;

2 – Anello che si usava un tempo per legare i cavalli;

3 – Finestra della cucina;

4 – Vecchia stampa

 

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