Nel cuore delle colline marchigiane, in un azzurro pomeriggio di primavera, Luciana De Marchi ha aperto la sua casa del Piaggiolino per presentare il libro di Marco Ferri intitolato Diceva Leopardi. Erano presenti amici di vecchia data, ma anche conoscenze recenti, animati dalle stesse curiosità e alla ricerca di occasioni per fertili ed inusuali confronti. La lettura proposta delle Operette morali è densa di riflessioni colte, di sobbalzi passionali e di indignazione mai sopita. Lascia solchi profondi in chi non si è rassegnato ad accettare tutto ed è pronto a risvegliare passioni di cui sembrava scomparsa ogni traccia. Il libro inizia così: “Leopardi dialoga con naturalezza con una persona che vive duecento anni dopo”. Che cosa hanno in comune Ferri (che vive duecento anni dopo) e Leopardi (che è quello che è morto duecento anni fa)? Domanda seria che vorrebbe una risposta articolata ed approfondita.

Faccio il verso all’autore del libro dicendo che dovrei conoscere più cose ed essere meno ingenua per rispondere adeguatamente. Non essendo dunque in grado di affrontare tale complessità, mi fermo alla superficie. Per esempio hanno in comune una frequentazione quotidiana con una biblioteca per una parte importante della loro esistenza. Leopardi con quella sterminata ed arretrata del padre che rispecchia appieno i convincimenti reazionari ed il disgusto per la modernità. Con tutti i limiti che la caratterizzavano era pur sempre una biblioteca in un mondo di analfabeti, vale a dire una opportunità pressoché unica e comunque una ricchezza di inestimabile valore culturale.

Marco Ferri da giovane è stato un assiduo frequentatore della biblioteca Federiciana e in seguito da bibliotecario ha approfittato delle opportunità di letture sconfinate che la stessa gli offriva. È stato poi responsabile della Federiciana, custode attento e premuroso del suo glorioso passato, ma anche pronto ad aprirsi a quanto di più interessante la cultura elaborava nei diversi campi.

Entrambi non possono rinunciare alla lettura: Leopardi fino al punto di rovinarsi per sempre la salute sulle sudate carte; Marco Ferri fino al punto di accettare una cattedra universitaria per tentare di convincere i giovani ad amare la lettura e le biblioteche, e diventare dei professionisti per quanto riguarda la gestione del sapere.

Entrambi amano di un amore lucido e sconfinato la poesia. Nel Dialogo di Timandro e Eleandro quest’ultimo è convinto che “se qualche libro potesse giovare sarebbero soltanto libri poetici. Libri destinati a muovere l’immaginazione”. Forse anche per queste affinità elettive Marco Ferri non ha alcuna forma di sudditanza nei confronti di Leopardi. Dialoga con i testi che Leopardi ha consegnato al futuro, confessando senza remore quello che pensa. I Detti memorabili di Filippo Ottonieri ad esempio gli sono proprio indigesti: “elencati in questo modo con un interminabile spreco di opinioni dimostrate da una logica un tantino maniacale e paranoica, beh è una notevole rottura di coglioni”. Così afferma Marco Ferri e non è finita qui: quasi come risarcimento per il tempo perso da un lettore zelante, nella tessitura dell’Operetta in questione mette un suo racconto (suo di Marco Ferri) che parla della vita del signor F. È un racconto coinvolgente ed è tutt’altro che una rottura. Merita di essere letto con attenzione, se non altro è una bella sfida a cui capita di assistere di rado.

E il pessimismo di Leopardi? Mi viene in aiuto Marco Ferri che dice: “Sarebbe bene liberarsi dai cliché letterari ed anche cinematografici che hanno descritto Leopardi come se portasse su di sé tutte le sofferenze del genere umano ….. con il tempo queste affermazioni critiche sono diventate dei pregiudizi (e anche sorde semplificazioni)”. 

Guido Giorello è stato un matematico, un filosofo della scienza, un epistemologo, Edoardo Boncinelli è un fisico, un biologo, un genetista. Insieme hanno scritto un saggio intitolato L’incanto e il disincanto. Leopardi. Due intellettuali di solida e meritata fama e non letterati di formazione e di professione vedono con chiarezza quello che ad altri è nascosto: “Leopardi ha ricordato che compagna della verità è la malinconia, ma la sua non è la posizione del placido rassegnato, bensì la lucida disperazione del ribelle”. Marco Ferri aggiunge: “Quello che Leopardi dice e racconta è pieno di vitalità … è drammaticamente polemico. Un ribelle in piena età della Restaurazione”. Cita anche Pier Vincenzo Mengaldo: “Aboliamo la parola pessimismo e parliamo più precisamente di desolazione cosmica”.

Il capitolo finale del libro Diceva Leopardi è intitolato Morale delle favole: “Se l’uomo (inteso come uomo e donna) fa parte della natura, non potrà mai superare i suoi limiti naturali. La totale estraneità della natura ai ragionamenti e sentimenti umani è sicuramente desolante. Si potrebbe dire disumana. Eppure include l’umano. Che cosa significa questo corto circuito? Leopardi pensa che da questa condizione non si possa uscire e che le illusioni non abbiano alcun senso. Tutta la straordinaria cultura che ha nutrito il poeta recanatese fino a quel punto lo lascia nudo di fronte all’arido vero”.

Il libro di Marco Ferri deve essere letto non perché è scritto benissimo, ça va sans dire, non perché è profondo, non perché è colto e ironico, ma perché è un obbligo etico verso noi stessi e verso quelle persone con le quali affrontiamo la notte buia che stiamo attraversando, perché ci esorta e ci aiuta ad essere ribelli, come Leopardi, che non si è lasciato condizionare dalla Bibliotheca Mundi paterna ma ha saputo scegliere e raccontare.

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