Avrò visto questo film almeno una ventina di volte. L’ho ammirato, mi sono divertito, ne ho intuito il valore, ne ho fatto un piccolo culto, ma non ho mai cercato di spiegare i motivi di una devozione. Perché farlo? Credo che il film (come il suo autore) sia allergico alla parola “critica”. Il suo autore di sicuro, ma il film stesso ne è una cura preventiva. La mia dunque non è una critica cinematografica, solo una analisi delle emozioni di uno spettatore, 45 anni dopo. Rimango infatti ogni volta stupito dalla leggerezza e dalla profondità del racconto, e percepisco che c’è qualcosa di più, che è insondabile per quanto Woody Allen continui a girarci attorno. Nel delizioso e amarissimo finale del film viene espresso apertamente: il protagonista maschio, Alvy Singer (Woody Allen), dice che ogni tentativo di comprendere i rapporti tra l’uomo e la donna è destinato a fallire, perché “sono irrazionali, pazzi, assurdi”. Non è l’unico fallimento analizzato nel film, che ha invece una alchimia funzionale inaspettata. Nella sua autobiografia, A proposito di niente, Woody Allen dice che il film è stato montato e rimontato più volte e le scene più volte cambiate e l’idea iniziale del flusso di coscienza è stata subito accantonata. Eppure tutto scorre, nonostante i numerosi modi e stili narrativi: confessione, diario, colloquio, slapstick, filmino familiare, analisi della scena mentre si sta svolgendo, dialogo lucianesco, etc. Episodi e stili cuciti insieme, quasi a caso, tuttavia il filo non si vede e tutto appare plausibile mentre continua a girare attorno a un significato che è indicibile. E non mi pare che coincida con la sua “quarta di copertina”, la sua presentazione al pubblico, infatti il film non è una commedia romantica, e la “nevrosi contemporanea urbana” c’è ma non è significativa. Tutti i personaggi sono disillusi, e sia quelli combattivi (come Alvy Singer) sia quelli integrati (quasi tutti gli altri) sembrano inermi, immersi in un degrado culturale e sociale che evidentemente era molto percepibile e anche molto avvilente. La sottomissione di ogni espressione umana alle leggi del mercato (l’immoralità degli applausi fasulli dopo le battute, ai quali siamo ormai abituati, o il cretinismo spettacolare dei premi di un sistema che premia sé stesso e il proprio successo), secondo me neanche questo è il centro del disincanto: si ha infatti l’impressione che i lucidissimi sarcasmi di Allen siano disperati. Quindi dietro l’apparente leggerezza c’è una disperazione storica. E questa disperazione va alla ricerca di un sentimento sincero tra uomo e donna, una comfort zone, ma scopre che tutto sta franando. Da un lato gli intellettuali cerebrali e autoreferenziali, dall’altro il commercio dei sentimenti, in mezzo, niente. Annie parte per Los Angeles, ne è attratta, e quello (Hollywood) è proprio il centro di irradiazione dello spettacolo, del kitsch, del falso, del sesso e droga, della celebrazione della mediocrità, immerso in una solarità accecante. Il film è del 1977. Rispetto all’analisi sconfortata di Allen oggi, 45 anni dopo, il territorio culturale non pare cambiato. Ripete gli stessi riti. In Italia, encefalogramma piatto. E tutti celebrano tutti e ovviamente tutti firmano soltanto capolavori. Quello che mi ha colpito di Io e Annie è lo sconforto preveggente del regista, che è diventato vintage. Oggi la disillusione e il disincanto sono acqua passata. La vacuità intellettuale è già di seconda mano. La banalità è un valore imprescindibile.

Prima di arrendersi Allen proverà ancora, con Zelig. Ma niente da fare. In seguito gli rimarrà solo il compito di aggiornare la commedia dei sentimenti. Questo film ha la forza del documento ritrovato sotto la sabbia del deserto.

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