Giù nella valle, cari lettori di Paolo Cognetti, si sono incazzati i valligiani. Imperturbabili i critici letterari. Avrei supposto il contrario, di fronte a immagini di seconda mano, tratte da film americani e trasferite acriticamente a una valle italiana. La prosa di Cognetti è sovrapponibile a quella “dei narratori americani che lui ama” (e copia). Ma copia male, Cognetti, e verrebbe da dire purtroppo per lui; senonché la famosa “critica letteraria italiana”, che è patologicamente entusiasmabile fino alla coglioneria (citazione da Leopardi), non è così sottile da distinguere tra Nebraska e Valsesia, tra immagini preconfezionate e veri paesaggi, tra stereotipi narrativi e qualità della prosa.

Si sono arrabbiati i valligiani, che secondo Cognetti “lavorano duro, fumano come se non ci fosse un domani, e prima di tornare a casa passano dall’osteria a ubriacarsi. Le donne li attendono con pazienza, mandano avanti la casa, sopportano le brutalità e gli eccessi dei mariti”. Sottinteso: tutti. O quasi tutti.

Torna alla memoria un incipit di Raymond Queneau, dai “Fiori blu”: “Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevano calvadòs”. Era ironia, parodia, rivolta agli stereotipi. Cognetti non frequenta l’ironia. Gli stereotipi a lui facilitano la scrittura. Macché premio Strega, questa è roba da Nobel.

Ma che delle comunità montane della Valsesia ne capiscano più della critica letteraria italiana (qualunque cosa si voglia intendere oggi con questa etichetta residuale) è un sintomo evidente del disastro. Senza offesa per le Comunità Montane: anzi, grazie.

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