Quando Francesco mi ha portato il suo romanzo, ho pensato che avesse scritto qualcosa che rivelasse le sue esperienze, anche perché in precedenza aveva raccontato della sua famiglia, come se volesse chiarire a sé stesso il percorso della propria vita, partendo appunto dall’inizio, dalle radici. Confesso che mi sarebbe piaciuto sbirciare dietro le quinte di quello che ufficialmente è il percorso di chi come lui, come tanti altri (a volte penso che sia anche un fatto generazionale, sebbene lui abbia qualche anno meno di me) vuole cambiare le cose. Non si fa l’assessore, il sindaco, il parlamentare europeo e l’imprenditore se non si ha il desiderio di incidere nella società. Poi si scopre che le cose sono più complicate del previsto e uno magari prova a conciliare radici e futuro conducendo un’azienda agricola biologica e nello stesso tempo, oltre alla famiglia, trovando (o ritrovando, non so) un’amicizia più intima e confortante: la scrittura. Che significa anche lettura, poiché difficilmente un scrittura può fare a meno del suo alter ego, del lettore). 

E ritrova anche un’esperienza straordinaria come quella del 2005 con Mario Dondero. E con Angelo Ferracuti, che è uno migliori narratori italiani, e Massimo Raffaeli, uno dei pochi critici letterari davvero importanti. Tutti qui, a Cartoceto. 

E il volume, Strade di Cartoceto, è uno di quelli che restano, che rivisto venti anni dopo acquista ancora più valore, e intendo valore artistico, non commerciale. Sta alla pari con quello di Paul Strand e Cesare Zavattini su Suzzara, che ha fatto storia. In quel volume Francesco Baldarelli proponeva dei testi narrativi. Usava il parlato con abilità e sensibilità letteraria, ne controllava i ritmi e il tono. Erano testi brevi però dialogavano con le fotografie di Mario Dondero, (“la capacità di fissare l’humanitas in stato di quiete”, ha scritto Massimo Raffaeli). Il microcosmo di Cartoceto era già descritto in un libro importante. Ora c’è un romanzo.

Allora ci sono due considerazioni che vorrei sviluppare e riguardano la sua idea di realtà da rappresentare attraverso la scrittura, e come farlo.

Immagino che di realtà ne abbia viste tante, Baldarelli, eppure ha scelto di nuovo l’idea di una comunità collinare, identificata nella toponomastica e nella topografia. Quando parlo di microcosmo non intendo un piccolo mondo racchiuso da mura antiche, che ha le sue consuetudini e i suoi rituali peculiari, magari refrattario ai contatti con l’esterno, una Macondo tra gli ulivi, dove arriva lo zingaro Melquiades a portare le novità del mondo esterno, (la calamita, il ghiaccio), intendo invece una comunità che per diverse ragioni ha deciso di vivere in un luogo, un luogo che può assicurare il buen retiro ma che nello stesso tempo assorbe e assimila le esperienze della globalità, e non può farne a meno. Che poi sarebbe il consiglio di Candide: il faut cultiver notre jardin, che non è l’elogio dell’opportunismo, come viene interpretato dalla politica contemporanea, patologicamente afflitta da evidente nanismo. Invece l’opposto. Cercare la tranquillità dell’anima, di fronte a quella che Fruttero e Lucentini avevano chiamato La prevalenza del cretino. Il faut cultiver notre jardin, e qui lo fanno. Nel modo migliore, con gli ulivi, i formaggi, lo slow food di Beltrami, l’eccellenza del Simposio di Lucio Pompili. Dietro e dentro il romanzo c’è tutto questo.

E su questo mondo del buon retiro, piccolo e a suo modo complesso, cade la neve. Ovviamente non per tutti è un luogo dove vivere tranquilli, per alcuni è semplicemente il proprio luogo di nascita e di vita quotidiana. Le storie, direi i destini, che Baldarelli racconta sono tanti, e vengono a comporre un mosaico di quelli difficili da ricomporre perché non è fatto di tasselli simili ma molto diversi tra loro. Alvaro, la maestra in pensione Giovanna, la famiglia tunisina, Brigida assistente di farmacia, quella che arriva con la moto, la barista Ale, Silvia che è contro tutto il sistema e veste come vestivano gli hippy, poi gli olandesi, i tedeschi, gli inglesi, i pastori sardi, Wilson e Jane che si scontrano con Gianluca Testini e le lobbies dei semi, Weimer e il suo buen retiro, personaggi veri e inventati: un piccolo mondo sommerso dalla neve e quando la neve si scioglie e mette in pericolo le mura stesse che lo racchiudono, spunta il valore dello stare insieme. Nella casa in collina, Cesare Pavese parlava della vita sulle colline torinesi (una fuga dai bombardamenti più che un buen retiro) come di un nuovo aspetto delle cose, un modo di vivere. Qui la grande nevicata diventa una metafora, la natura nel suo aspetto più magico e pericoloso: coltivare il proprio giardino non basta più, bisogna riscoprire il senso di comunità. Come farlo? Meglio con il senso della realtà di Pavese, secondo me, che con l’immaginario dell’Antica Madre, e del resto i brani più forti del romanzo sono quelli che descrivono i destini individuali e i lavori, e hanno una precisione e un ritmo affabulativo convincenti, una lingua scarna e robusta. Proseguire in questa direzione potrebbe rivelarsi una buona scelta selettiva.

Francesco Baldarelli, La grande neve, affinità elettive 2021, 156 p. (15 euro)

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