Certo che le banalità più cretine investono anche “le menti migliori della mia generazione”! Stimolato, da vecchio nostalgico, dal titolo del volume – Fischiava il vento – non potevo mancare alla sua presentazione il primo giorno della rassegna fanese dedicata alle novità in libreria. L’autore, in passato funzionario del PCI, con un lavoro egregio ha mescolato sapientemente le vicende della “grande” politica con vicende più intime, più personali nella storia di quel grande partito che un tempo era stato anche il mio, tratteggiando il profilo etico e umano di una comunità politica oggi impensabile, orgogliosa – come si diceva allora – della sua diversità, appunto la diversità comunista. Ebbene il sobrio intervento dell’autore che ha ricordato episodi salienti della sua vicenda personale e politica a Imola, la sua città, è stato accompagnato da quelli di due presentatori di grande prestigio che si sono espressi con registri quasi opposti di fronte a quella che anche gli imbecilli reputano una “grande storia”. L’uno, il noto figlio del generale assassinato dalla mafia nel 1982, si è accostato al testo con grande umiltà e modestia riuscendo però a coglierne il senso ultimo di racconto di un’originalissima antropologia politica, unica nel suo genere, entrando con rispetto nelle pieghe del volume anche attraverso un po’ di nostalgia per una comunità che non c’è più. L’altro, il coltissimo e raffinatissimo ex-direttore di rete Rai, dall’alto della sua sapienza disincantata e della sua trascorsa militanza in Lotta Continua, ha liquidato con due battute quella “grande storia” archiviandola come reperto archeologico e affermando che di questa, non rimanendo più niente sul piano politico (e ideologico), resterebbero solo le emozioni e i sentimenti raccontati nel libro, con tanto di invito saccente e
perentorio a lasciar perdere tutto il resto. Anzi, approfittando della città di origine dell’autore, ha a più riprese evocato, rispetto al PCI, l’attualità di Andrea Costa, il dirigente socialista cronologicamente più lontano da quella storia – scomparve undici anni prima della scissione di Livorno – continuando
imperterrito a raccontare un partito che probabilmente non sta più neppure nelle vulgate dei giornali di destra: tetragono, grigio e con militanti tutti dediti ad un’obbedienza cieca e assoluta verso il gruppo dirigente, tutte cose che il volume presentato smentiva ampiamente.
Se lo stesso illuminato giornalista avesse avuto l’umiltà di conoscere la storia e non le barzellette, avrebbe fatto i conti, ad esempio, con quanto accaduto nel 1956 (dopo l’invasione dell’Ungheria) dieci chilometri più a nord, quando l’intero gruppo dirigente provinciale del PCI andò a Roma a chiedere le dimissioni di Togliatti-dicasi-Togliatti da segretario del partito, non uno dei tanti segretari farlocchi venuti dagli anni ‘90 in poi! Anni dopo, negli anni ‘60, molti di quella delegazione pesarese invece di essere deportati in Siberia sarebbero diventati…parlamentari.
La definizione del PCI di “paese nel paese” era di Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che mai aveva fatto sconti a quel partito e che, anzi, era con il medesimo quasi sempre in polemica. Che si debba arrivare a sentire certe fregnacce da uno degli alfieri dell’informazione democratica e di sinistra è molto triste. Mala tempora currunt! Non solo perché c’è la Meloni.
Marco Savelli