Letture

Sulle orme del naturalista Domenico Matteucci (4)

 

18 giugno 2017

In “La flora del Monte Nerone” (1893) Matteucci scrisse: “Arrivati in Pian di Trebbio, si può ascendere il monte per la strada detta del Ranco e di Collelungo voltando a sinistra di una piccola Cappella chiamata Maestade o per quella detta del Monte o dei Campitelli, proseguendo per Serravalle villaggio situato alle falde del monte in parola”.

Il primo tratto della moderna strada provinciale che risale il Monte Nerone insiste sullo stesso tracciato della vecchia mulattiera che da Pian di Trebbio saliva verso la cima passando per Col Lungo. All’altezza del Rifugio I Ranchi, dove l’antica via si faceva particolarmente ripida, la strada asfaltata lascia il vecchio tracciato, attraversa un ampio tratto della pendice del monte, e va a raggiungere l’altra mulattiera, quella che da Serravalle di Carda risaliva il Fosso della Cornacchia, seguendone il tracciato fino in cima.

Percorro in auto il tratto di strada provinciale fino ai Ranchi. Da qui proseguo a piedi imboccando il sentiero 26 (ora divenuto 200), sentiero che ricalca la parte finale del tracciato della vecchia mulattiera.

Matteucci: “ Le pendici del monte sono ricoperte di pingui pascoli e di estesi boschi la cui essenza è rappresentata da faggi più volte secolari che purtroppo incominciano a risentire l’avvicinarsi della civiltà col cadere sotto l’inesorabile scure del legnaiolo e del carbonaio.”

Nei pressi del Rifugio è in corso la ceduazione della faggeta; quei faggi a terra non hanno conosciuto la scure ma una moderna motosega. Più in alto, dove le motoseghe non sono recentemente giunte, non vi sono alberi plurisecolari; i fusti rampicanti delle edere, che salgono  su  alcuni faggi, hanno quasi lo stesso diametro dei tronchi a cui sono avvinghiati.

Più in alto il sentiero esce allo scoperto: attraversa i pascoli di Col Lungo. Dove la pendenza è più marcata vi sono macchie di bassi cespugli in fiore: è la Genista radiata.

Come nell’escursione precedente, anche sui fiori di queste zone aperte si concentrano molte zigene: Zygaena carniolica, Zygaena purpuralis, Zygaena rubicundus, Zygaena filipendulae e Zygaena transalpina; le loro ali nere dai riflessi lucenti sono macchiate di rosso carminio, colore che è da ammonimento verso i potenziali predatori, li avvisa che il loro corpo contiene cianuro.

In questa zona aperta lo sguardo può spaziare; verso la Carda, monte aspro ed aguzzo; a sud-ovest vi è la Serra della Stretta, coperta dal bosco; più lontano, a nord-ovest si scorgono i rilievi di Sasso Simone e Carpegna, più a nord la rupe di San Leo e poi il Monte Titano.

Scrisse Matteucci: “l’occhio spazia sovrano su di un vasto orizzonte e gode di una splendida veduta. A ponente il M. Carpegna, il Sasso di Simone, uno dei più alti ed importanti contrafforti dell’Appennino aretino all’Alpe di Luna, ed un’infinita serie di colline biancheggianti che raffigurano un mare in tempesta le cui onde gigantesche si siano per incanto solidificate, più a destra il M. Titano su cui siede il S. Marino”.

Il sentiero entra nuovamente in una faggeta; è quasi pura. Tra le piante erbacee in fiore: il Giglio martagone Lilium martagon, che Matteucci aveva trovato nei vicini “Boschi presso la Montagnola”, l’Orchide macchiata Dactylorhiza maculata, ma soprattutto l’Aglio orsino Allium ursinum, che in certi punti tappezza completamente il sottobosco. Sul Monte Nerone Matteucci aveva rinvenuto l’Aglio orsino nei: “Boschi sotto il telegrafo”.

Il Naturalista nella sua opera spiega che cosa intende per “telegrafo”: “la vetta più elevata (telegrafo), ove trovasi una piramide di pietre rappresentante un punto trigonometrico fissato dal Genio militare”; oggi la vetta è occupata da un’antenna e da una selva di parabole.

Antenna e parabole che vedo quando lascio la faggeta ed esco nel Prato del Conte.

Superato il Rifugio Corsini, raggiungo Casciara, un rudere poco discosto dalla strada.

Vicino alla Casciara, un enorme faggio sul bordo della strada. Ne misuro a spanne il diametro: 140 cm. Questo sì che è secolare!

Scrisse Matteucci: “Chiunque nella stagione estiva (dal 10 luglio circa a tutto agosto) visiti il monte o per il puro piacere di compiere un’ascensione od ami trattenervisi per chiedere ai suoi quieti recessi, alle sue boscose solitudini, all’aria purissima e fresca conforto agli aspri travagli della vita, salute e vigoria al corpo ed alla mente affranti dal lavoro materiale od intellettuale, trova ospitale rifugio nella Casciara, modesto edifizio costruito da remoto tempo in bellissima posizione e dalla quale si gode di un magnifico panorama. Il naturalista poi, specialmente il botanico, può trattenersi nella montagna con vantaggio poiché è ricca di piante che per la varietà delle forme e delle tinte dei loro fiori richiamano lo sguardo anche del profano, il quale dinanzi alle bellezze della natura resta compreso di ammirazione e di stupore”.

Probabilmente lo stesso Matteucci  aveva trovato ospitale rifugio alla Casciara.

 

Di quel modesto edificio costruito da remoto tempo, avevo trovato traccia in un altro documento, scritto, un secolo prima di quello di Matteucci, dall’abate Giuseppe Colucci (Nelle antichità picene, Tomo 27°, 1796, Fermo) e riguardante la Famiglia dei Conti Brancaleoni di Piobbico; a proposito della Val d’Abisso viene riportato: “per mezzo di cui corre un perenne ruscello di acqua, che proviene quasi dalla cima del monte Nerone detto un tempo Rio petrello, oggi Fosso della Casciara da una casa fabricatavi dal Sig. Conte di Piobbico per commodo dei pastori, che conducono le greggi in quel monte in tempo di estate, dove vi concorrono ancora in tal tempo dalle maremme Romane”.

Entro in quelle rovine e guardo quelle macerie; le pareti di pietre senza intonaco e il pavimento in terra battuta indicano che il piano terra era adibito a stalla. Gran parte del pavimento del piano superiore è crollato; in una delle stanze, sospesi nel vuoto, i resti di un camino.

Domenico Matteucci stava seduto accanto ad un tavolinetto, curvo sui campioni di piante che aveva raccolto durante la giornata; attraverso la lente d’ingrandimento osservava gli elementi di quei fiori.

Si alzò per andare a prendere il quaderno di appunti che aveva appoggiato sulla mensola del camino. I suoi occhi caddero sulla porzione di paesaggio incorniciato dalla piccola finestra; sulla forma squadrata di Sasso Simone che spiccava sui rilievi circostanti.

Si affacciò. Vi era nell’aria un fragrante odore di fieno tagliato.

Nel Prato del Conte, più in basso, pascolava un gregge di pecore; il pastore se ne stava sdraiato all’ombra dei faggi al limitare del pascolo; vicino a lui, anch’esso sdraiato, il suo aiutante: un grosso cane.

Scrisse Matteucci: ”Sia che il tourista nella stagione estiva s’ inerpichi ansando e sudando per i fianchi più scoscesi del monte, sia che percorra le belle e vaste praterie distese specialmente tra le due accennate vette, gode sempre di un’aria purissima, fresca eccitante dell’appetito, è dominato da un silenzio solenne rotto solamente dal tintinnio delle mandre di pecore pascolanti nelle praterie stesse o nei declivi erbosi e dal confuso ed allegro vociare dei falciatori che nel luglio attendono al taglio del fragrante fieno.

I pastori che stanno a guardia delle mandre di pecore che dall’agro romano arrivano al monte circa il 25 giugno sono per la maggior parte nativi di questi monti o dei paeselli e villaggi perduti tra questi e sono in generale di indole mite e tranquilla. Semplicissima è la loro vita; coperti almeno le gambe di pelliccie di capra o di pecora che si preparano da sé durante il soggiorno invernale nell’agro romano, dormono per lo più a cielo scoperto, ravvolti in una coperta ed in pelliccia; di giorno, armati di un bastone e con a fianco un grosso cane da pastore, stanno a guardia delle mandre sparse per le praterie e per le pendici del monte; verso sera si riuniscono allo stazzo e […] attendono alla confezione del formaggio e della ricotta. Lo stazzo ha forma circolare o di ferro di cavallo ed è chiuso, per essere riparato dal vento, da una siepe intessuta di frasche di faggio; al centro trovasi una cavità in cui viene acceso il fuoco; ai lati di questo sono due colonnette di legno munite di fori a varie altezze per i quali passa un asse cilindrico di ferro (caviglia), destinato a sostenere un cilindro di legno che porta nel centro una catena di ferro per sostenere il caldaio per far bollire l’acqua destinata a preparare la cosi detta acqua cotta, specie di minestra consistente in una scodella di fette di pane in cui versano acqua bollente, salata ed aromatizzata con varie erbe tra cui a preferenza la mentuccia o nepetella […] e condita con olio. L’ acqua cotta è il cibo normale dei pecorai oltre la ricotta ed il pane asciutto di ottima qualità.

Ai fianchi dello stazzo sono dei letti costituiti di frasche sostenute da colonnette e traverse di legno; sulle frasche vengono distese poche pelliccie e coperte. In caso di pioggia ogni pecoraio, fornito di un banchetto a tre piedi, si mette avanti al fuoco che, come ho già detto, arde nel mezzo dello stazzo e con una pelliccia in testa aspetta che il temporale cessi, dopo di che, se è possibile, nuovamente si corica.”

La vita pastorale di cui Matteucci è stato testimone diretto è stata spazzata via.

Gironzolo un po’ nei dintorni. Ciò che resta della pastorizia in questa porzione del monte è una nutrita mandria di vacche che lentamente risale il Prato del Conte; cerca riparo, ora che il sole è alto, nell’ombra della faggeta vicina al Rifugio Corsini.

Due settimane fa (lo scorso 4 giugno) questa mandria ha risalito il Monte con le proprie zampe, partendo dalle stalle di Piobbico ed effettuando una transumanza di 13 km.

 

Didascalie foto:

1 – Faggio avvolto dall’edera

2 – Zygaena carniolica

3 – Giglio martagone Lilium martagon

4 – Antenna e parabole sulla sommità del Monte Nerone

5 – Faggio secolare presso la Casciara

6 e 7 – La Casciara in rovina

8 – Mandria di bovini nel Prato del Conte

 

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